di Angela Giojelli (2019)
Il viaggio di Marco Onofrio. Che sa di cielo, perché “tutto il cielo è un viaggio”, di cui “ogni respiro è un tuono”. La vita è, “sta”. Semplice. Prorompente. Prepotente. Dolorosa e anche meravigliosa.
Anatomia del vuoto (Milano, La Vita Felice Edizioni, 2019, pp. 88, Euro 13): un emozionante cammino verso la verità, che non è altro che lo stesso dubbio, la stessa domanda. La vita stessa.
Dolcissima inquietudine esistenziale, mai oppressiva o ridondante ma propositiva e ottimista, vibrante di umanità, traboccante perfino di gioia che sapientemente cammina parallela al dolore. Una delicata ricerca del sé in grado di carezzare l’altro, anche quando attraversa la morte, con un addio nel “bianco mare pietrificato”. Una evoluzione personale attraverso l’osservazione dell’evoluzione dell’universo, che passa per i legami interstiziali, gli abbracci, una cefeide, l’amore per una donna, e arriva alla resurrezione.
Il vuoto. Sezionato, sminuzzato, fino a crearne un ‘trattato di anatomia’. Tutti i suoi vuoti conducono progressivamente alla pienezza, satura di incertezze, ma meravigliosamente umana. Tentativi, disagi, presagi, contemplazioni, sofferenza, ritorni e slanci verso il futuro, che non è null’altro che parte del tutto. “Edipo diventa Amleto”, la luce “inocula una rara / malattia” e io “inutilmente / penso, sono stanco”. Quanta grazia nella metamorfosi della morte, che diventa essa stessa vita, anche quando Marco si interroga sui suoi oscuri meccanismi, anche quando l’ineluttabilità delle spirali delle vicende ci annichilisce. Come un cerchio dove tutto torna. Profondo senso di umanità e “compassione” avvolge Icaro che muore per colmare il vuoto: “Lo so, non ce l’ho fatta: ma / ecco, la fine si congiunge / a un nuovo inizio”. Egli ‘balbetta, pencola, inciampa’: come tutti noi, tutti i giorni. Ma “non siamo qui per niente”. “Tutto questo dolore, però / non è inutile: / genera amore”: “profonda / nasce, una linea, da quella che finisce”, “spinge da dentro, nella sofferenza”, nel parto del dio che “smania / di venire alla presenza”. La vita. Amore dalla sofferenza, vita dalla morte e morte come fase della vita. Marco Onofrio parla di cicale e grilli che continuano a cantare, respingendo “lo sfascio inesorabile” di fine estate: il grido della natura stessa che, trasformandosi, si dirige verso la morte. Ma con serenità. Continuando ad esplodere, quasi a esultare. Il vuoto diventa parte di un tutto, una presenza, la presenza. “La risposta è il vuoto”. La ricerca è proprio la risposta, in ogni vuoto c’è la pienezza che colmerà la domanda successiva, come “ogni oceano ne contiene un altro”.
“Cose inghiottite, divorate, perse
e anche adesso, e adesso, e adesso
istante dopo istante, più del mare”.
Il cuore palpita, quanta necessità, quale feroce desiderio di vivere! Adesso.
“Ancora. E ancora”. Infinitamente.
Struggente l’invito ad abbracciare “finché si è in tempo”: abbracciando ci spostiamo dalla nostra visione del centro. Noi non siamo al centro. “Il centro” è il vuoto, che è immenso, e dunque il tutto, dove scompariamo e ricompariamo.
“Tutto cambia, tutto finirà” dice il ramarro. È vero. Ma Marco è vivo. E accetta il cambiamento attraverso il passaggio del vuoto. E vuole amore. “Tutta la vita che non traduce amore / sarà perduta, si rimpiangerà”. Vuole luce: “così si dovrebbe morire”, nella “pienezza irripetibile / della felicità”, come una stella.
La stella siamo noi. Siamo proprio noi stessi: come se “non fosse già un miracolo / che esistiamo, pensiamo / e possiamo parlarne”. È qui la stella su cui l’alieno che ci guarda da lontano non vede l’ora di arrivare. Sognando.
“Sono qui. Cercami.
Parlo con le nuvole
e ti aspetto”.
8 ORIZZONTALE
Lo splendore telescopico del cielo
muto della grave solitudine
per la vastità che lo incorona
d’abitudine,
empie il grande sacco dello spazio:
è un budello cieco che non chiude.
Dalla sgualcitura del vuoto
chiuso dall’interno dei suoi lembi
soffia attorno il polline del mondo.
È polvere di luce che scompare
dentro l’invisibile dell’aria
e tutto ne rinasce e si rinnova,
mentre una strana gioia, una dolcezza
scende piano, in fondo, a illuminare
e spande la carezza del dolore
che lo fa infinito:
un 8 orizzontale
che io traccio ovunque
con il dito.
HO VISTO MORIRE UNA STELLA
Ho visto morire una stella.
Brillava normalmente.
A un tratto il suo fulgore è raddoppiato
e poi si è spenta,
inghiottita dalla tenebra notturna.
Niente potrà più riaccenderla.
Avevo appena alzato gli occhi al cielo
come attratto da un presentimento:
incrocio magico tra il mio soffio umano
e la luce della catastrofe
che solo in quel momento
raggiungeva la terra
milioni di anni dopo essere accaduta.
Così si dovrebbe morire
− pensavo: non di consunzione
o triste inedia,
ma nella pienezza irripetibile
della felicità.
A UNA CEFEIDE
Cercavo quella luce dentro me
graffio di perla sul velluto nero
del suo fuoco – fontana
lontana di meraviglie
tra le polveri splendenti
dell’aurora –
due ore ho parlato a una cefeide
confidandole il mio sogno
e il mio segreto:
liberi
indomiti
impronunciabili.
Galleggiava ai bordi della notte:
cadde in pochi attimi
portando via con sé
sogno e segreto
dentro i precipizi
del silenzio.
Tornerà tra mille anni, forse:
di me, allora, polvere neppure
ma lei, più fedele della morte
manterrà il segreto intatto
e porterà dal cielo
il sogno finalmente realizzato.
COMETE
Impasta bianche nuvole il mulino
dall’immensa ruota.
S’aprono a vertigine orizzonti.
Buchi azzurri schiudono misteri
colmi di bellezza ultraterrena.
Vedere, diventare ciò che si vede
fino a morirci. Ma il silenzio
e le stelle sono incisi dentro.
Strade fiumi alberi scenari:
incisi dentro.
Filtri e raggi del sole:
incisi dentro. Ancora. E ancora.
La faccia tremolante delle cose
e il vuoto e l’invisibile del mondo:
è tutto nello spazio del pensiero.
Le scintille cadute
oltre la coda dell’occhio
brillano, comete,
chiomate lievi piume
di memoria.
Non le riprendi più.
Ma restano,
restano.
Per sempre.
FINCHÉ SEI IN TEMPO
Le voci sconosciute dei miei cari
suonano nell’aria del presente.
Posso ascoltarle, possono parlare.
Ma passeranno, come tutto passa.
Non avranno più la bocca materiale
e orecchi per raccogliere parole:
un infinito vuoto, ovunque,
accanto a dove siamo
ci separerà: per sempre.
Abbraccia, dunque, le persone che ami
finché sei in tempo! Il calore umano
si disperde rapido nel gelo
del mistero: lo divora
la profonda immensità.
Il gesto va compiuto sul momento:
non vergognarti, non lo rimandare.
Tutta la vita che non traduce amore
Sarà perduta, si rimpiangerà.
CONSOLAZIONE
Il mare caldo di una donna
e il marmo freddo della fine:
come notte e giorno sono il tempo
così nell’esistenza
è il corpo, è la sua carne viva
che oppone la presenza
dentro il vuoto.
Donna!
Quando il cuore le batte
negli occhi, ci sono stelle
che cadono felici.
La luce del suo sguardo
vale il mondo.
Tutto nel silenzio
prende forma e
trova, dentro l’ultima
ragione,
la bellezza senza fine
che non sa.
Spetta all’uomo
fargliela scoprire.
Farla risplendere
chiamando dalle cellule
l’amore.
Sentire nell’abbraccio
la speranza
la dolcezza della vita
la consolazione.
(da “Anatomia del vuoto”, La Vita Felice, 2019)