di Luigi D’Alessio
Si può rappresentare una figura
come asse portante intorno cui gira il mondo,
e la visione del reale in quattro versi?
In che modo una figura
è fulcro identitaria di realtà?
Così:
“Senza di te un albero
non sarebbe un albero.
Nulla senza di te
sarebbe quello che è.”
Eppure questi quattro versi
appartengono a un libro in cui
tutto è ineffabile:
“L’ho seguito.
L’ho visto.
Non era lui.
Ero io.”
In un altro libro si legge,
“Le parole. Già
Dissolvono l’oggetto.
Come la nebbia gli alberi,
il fiume: il traghetto.”
La parola non aggancia l’oggetto.
Non possiede il nome della “cosa”.
Da notare la posizione di “già”.
“Il nome non è la persona.”
Ci sarebbero esempi di inneggiamenti contrastivi,
in cui non voglio inoltrarmi a scapito dei quattro versi,
per tentare un estremismo.
Ma cito solo
“Cercatemi dove non mi trovo.”
Se ci fermiamo ad analizzare il verso,
è meraviglioso con quel cercatemi
che suona imperativo invito
e nello stesso istante nega la convocazione,
la chiamata, l’appello.
Ecco l’estremismo:
Può una poesia essere senza parola?
Una poesia che si componga da sé e di per sé?
Giorgio Caproni ha composto
una magia solo con “l’oggetto”.
O meglio, l’oggetto nel suo essere di per sé,
e l’oggetto in quanto “è” perché rapportato a noi.
Ma se la realtà non ci corrisponde più,
allora è il reale nella propria assoluta autonomia
a negare la sua stessa realtà.
Stupefacente!
Nei quattro versi c’è:
“L’oggetto”.
L’unico verbo essenziale all’essere.
La preposizione che indica un pronome.
E il nulla. Nulla. Una negazione, e qui la magia,
che nel momento in cui rappresenta l’assenza
si fa sostenitrice del tutto presente.
Rileggiamola.
“Senza di te un albero
non sarebbe un albero.
Nulla senza di te
sarebbe quello che è.”
#photografiaintima